Antonio Michelangelo Faggiano

– Artista, di riconosciuta fama internazionale, Antonio Michelangelo Faggiano (1946 – 2001), fu iscritto alla facoltà di Architettura di Milano dove non si laureò per dissenso e nel 1975, dopo il divorzio con Marisa Negri, con cui ebbe un bambino, a cui diedero il nome del nonno paterno, Raffaele, iniziò il suo percorso artistico con un’installazione pavimentale dedicata alla “disperazione proustiana” nella galleria Deambrogi: segna la demarcazione del segno unitario, che accompagnerà tutta la sua produzione. Attinge da Joyce, Kafka, Lautréamont, Defoe, Carroll; testi letti e tradotti sui muri, nell’invenzione di uno “spazio ampliato”. Una ricerca che culmina nel 1978 con “Le città impossibili” cui farà seguito l’imponente installazione “La torre di Babele”: immagini tenui e sbiadite, fotocopiate o disegnate, collage di spunti, in cui fa la sua comparsa il colore, mediante un ritocco a pastello su una base di tela emulsionata.

È in questo periodo che Renato Barilli lo include nella compagine dei Nuovi Nuovi.

Alla fine degli anni Ottanta autoproduce il primo volume di un’enciclopedia ispirata al mondo fantastico di Ukbar, tratto dagli scritti di Borges ed inizia ad accompagnare le tele con elementi tridimensionali per arrivare poi a tradursi anche in sculture vere e proprie. È del 1991 la serie “Dove finiscono i sogni di una razza estinta” di cui il bronzo del dinosauro su ruote rappresenta l’apice per qualità e poesia; accanto mappamondi, piramidi, bastoni. Non mancherà il ricorso alla satira, all’uso della sofisticata citazione di stampo duchampiano o ridisegnerà un immaginario neopop ispirato all’universo femminile leonardesco o più semplicemente collegato al cinema americano.

I suoi cut up visivi – negli ultimi anni ingigantiti dal plotter digitale – sono resi omogenei da un velo di tarlatana, una texture che appare una scelta concettuale più che una trovata tecnica: sembra cioè segnare quella sottile linea di confine che separa l’ “invisibilità del prelievo”, dalla “visibilità del frammento”. –

ANTONIO MICHELANGELO FAGGIANO,

VIVERE CON L’IMMAGINE

di Antonio d’Avossa.

(dalla pubblicazione di Edizione Nuovi Strumenti – a cura di Piero Cavellini)

Antonio Michelangelo Faggiano dispone al centro del suo lavoro una sola condizione quella dell’immagine e della sua articolazione. È da questa articolazione che l’immagine nutre un nuovo senso, lo ricodifica e lo riscrive, lo inserisce in un tempo che pronuncia l’arte e la sua storia come storia delle immagini oltre che come storia delle idee.

A partire dalla prima metà degli anni settanta, Faggiano rielabora l’universo delle immagini per raggiungere il luogo della fotografia. Si tratta degli anni dove nell’arte l’immagine fotografica é spesso la registrazione o la documentazione di un evento, di una azione, tuttavia sono anche gli anni in cui l’immagine viene ridotta a puro segno o a scrittura tipografica da parte dell’arte concettuale. Da un altro versante, di qualche anno appena precedette, la pop art aveva ricondotto l’immagine e il suo prelievo all’icona unica di un’arte americana per sempre (da quel momento) popolare. Il giovane Faggiano di quegli anni è carico di questa condizione visiva dell’immagine pittorica e consapevole che la lezione di queste due matrici è superabile nella coniugazione dei livelli del prelievo. Adotta un metodo che si richiama alla fotografia ma ne tradisce l’aspetto del compiuto dell’immagine che questo mezzo restituisce. Inizia a frammentare l’immagine e a renderla visibile ma non riconoscibile, dunque tocca il suo livello di invisibilità. Coniuga in questa fase, che continua sino alla fine degli anni Settanta, una invisibilità del prelievo e una visibilità del frammento. Le immagini sono tagliate o ritagliate da un contesto e si offrono allo sguardo come dei veri e propri cut- up visivi, secondo un procedimento iniziato in letteratura dallo scrittore americano William Burroughs. È, in sostanza. questo l’innesto inedito che Faggiano compie nei confronti delle due matrici prima indicate. L’organizzazione del suo lavoro si dispone ad accogliere una terza e potente matrice, quella della letteratura e per conseguenza quella della scrittura. Da questo innesto si diramano i suoi riferimenti, le sue passioni le sue letture, le sue scritture e infine (ma si collocano al primo luogo) le sue immagini. Eccoli dunque scorrere i titoli e le immagini che si disseminano nello spazio quasi a confondersi con esso. Sono riferiti a Jorge Luis Borges, a James Joyce, a Italo Calvino, a Marcel Proust, a Lautreamont, a Franz Kafka, a Lewis Carrol, a Daniel De Foe e a tanti altri ancora, sorretti da una continua visitazione delle avanguardie storiche che situa in primo piano la figura di Marcel Duchamp e quella di Man Ray, artisti cui dedica interi cicli di lavoro e dove l’immagine viene prelevata e rielaborata secondo le intenzioni di un processo di decontestualizzazione e di successiva ricontestualizzazione.

Antonio Michelangelo Faggiano diventa presto un singolare e presente interprete e lettore della realtà e del destino dell’immagine nell’arte italiana (e non soltanto) di quella generazione di artisti che supera l’impasse della dissezione dei materiali dell’Arte Povera e della sterile tipografia dell’Arte Concettuale. Procedendo sulla traiettoria di un rischio continuo Antonio Michelangelo Faggiano annuncia prima degli altri e diversamente dagli altri quella grande stagione che ha visto l’arte italiana rinnovarsi lungo il filo di una ripresa dell’immagine, dove figurazione e visionarietà, immaginazione e citazione, introspezione e frammentazione vengono, per ragioni di strategie critiche diversamente nominate come Citazione Postmoderna, Neo-espressionismo, Nuova immagine, Transavanguardia, Citazionismo, Anacronismo, etc. secondo una tassonomia delle tendenze che tenta di omologare sotto la grande cappa del Post-Moderno ogni tipo di personale produzione. Faggiano partecipa, ma a mio avviso sfugge anche ad ogni tipo di formulazione critica, da protagonista a questo rinnovamento. In particolare viene segnalato ed inserito dal critico Renato Barilli in uno dei gruppi (ma sarebbe meglio parlare di accorpamenti) più interessanti della rinnovata situazione italiana: I Nuovi Nuovi, insieme a Salvo, Ontani, Mainolfi, Spoldi e altri.

E’ dunque in questo passaggio che si svolge tra gli ultimi anni settanta e i primi anni ottanta che Faggiano raggiunge punti fermi che strutturano la sua pratica artistica e la consegnano alla storia dell’arte recente come una vera e propria indagine sul reale dell’immagine della nostra epoca. Ma non si tratta di una indagine nei termini di analiticità del segno, piuttosto Faggiano si confronta con l’universo favolistico e fantastico di una letteratura coltissima che cerca e trova le immagini e attraverso queste trova una immagine alle sue parole. Non ha caso Antonio Michelangelo Faggiano ha da sempre accompagnato, a volte pubblicamente per altre in privato, la sua pratica di artista con una scrittura che non svolge e non spiega l’immagine ma la moltiplica in un una infinita coniugazione di tempi e luoghi differenti e distanti. E’ un corpo unico tra visibilità (l’immagine) e invisibilità (la parola) che si presenta e si progetta in quegli anni.

C’è, del resto, una occasione europea che conferma l’attenzione che il lavoro di Antonio Michelangelo Faggiano riceve. Si tratta di Europa 79 a Stuttgart dove il confronto é serrato tra gli artisti europei che in quei medesimi anni tentano attraverso formule differenti (la pittura, l’installazione, il disegno) di allontanarsi dalla matrice concettuale che pure li caratterizzava tutti. Faggiano è uno dei pochissimi, e l’unico italiano, a presentare un lavoro dove la fotografia è la base di mediazione tra l’immagine e la parola e dove la frammentazione dell’immagine si ricompone attraverso la tradizionale forma della cornice. È una Torre di Babele delle immagini a determinare questa relazione tra il visibile e l’invisibile. Sono immagini di una raccolta di immagini che provengono da universi separati e lontani, tecnicamente sono invece fotografie sottoesposte, spesso acquerellate, dove l’immagine restituisce solo la relazione alle altre immagini compresenti e ne allontana l’identificazione. Una di quelle città invisibili che erano state esposte in differenti gallerie lungo un percorso di luoghi e un fluire di tempi. È proprio qui che è leggibile il progetto che accompagna tutto il lavoro di Faggiano, quel nuovo senso dell’immagine che si snoda tra le relazioni, tra gli interstizi e i vuoti che avvicinano una immagine all’altra, l’idea definitiva di azzerare o di restituire sul medesimo piano pittura e fotografia, disegno e illustrazione, produzione e riproduzione, cinema e fumetto, dove i generi si amalgamano in un caleidoscopio di immaginarie immagini che non restituiscono se stesse quanto piuttosto il nuovo senso della contiguità con altre se stesse.

Anche le immagini fotografiche che Faggiano dispone in disseminazione simmetrica o asimmetrica su pareti e spazi si offrono come simulazioni di disegni dove le sequenze temporali sono sconvolte dalla ripresa o dal prelievo da universi distanti e lontani e dove la cultura bassa si coniuga alla cultura alta come in un esercizio di speculare sapienza. Tutto è riconoscibile e allo stesso tempo nulla e riferibile, quasi a tracciare un confine invisibile tra la storia dell’arte e la storia delle immagini. Tutto è come in un paradiso dell’immagine. Basta spostare lo sguardo e l’esercizio si formula lungo una geografia della consumazione della riproducibilità. Cosi la sua opera è più di una raccolta di immagini, trovate e cercate, perché configura un vero e proprio atlante su cui il nostro sguardo può svolgere l’inedito esercizio dell’immaginazione. È in questo luogo che Antonio Michelangelo Faggiano dichiara di non creare l’immagine, consapevole della sua storica ed epocale riproducibilità adotta la fotografia o la fotocopia oppure ancora negli ultimi anni il plotter digitale, ma di prelevarla in relazione infinita ad altre immagini e di restituire carne alle ossa, o una nuova vita, dopo la consunzione subita dallo sguardo della storia. Da questo punto di vista il suo lavoro supera quella condizione post-moderna esercitata dalla citazione perché, a mio avviso, Faggiano non mostra la facciata dell’immagine ma la parola della sua visibilità, il corpo stesso di un atlante dove la geografia è spostamento continuo dei confini e dove i generi si frammentano per riunificarsi nel territorio dell’immaginario.

È certamente la frequentazione di autori labirintici, dove lo spostamento di tempi e spazi dilatati e ridotti è felicemente costruita, Borges, Joyce, Proust, a suggerire l’idea di un labirinto dell’immagine che tutta la sua opera configura. Basta pensare a quel ciclo di lavori che sotto il titolo de La Mano della Signora, o Le Mani di Ginevra, per ritrovare un motore labirintico della scrittura e dell’immagine. Qui la ricerca intorno a quel rischioso e frequentatissimo topos della storia dell’arte “La Gioconda” di Leonardo è tonificata dalla finzione a tutto tondo dell’analisi iconologica offerta dal testo. Si tratta dunque di una “Finzione” che, in perfetto stile borgesiano, svela tutti i meccanismi disciplinari della storia delle immagini: Leonardo e il suo quadro sono oggetto e pre-testo per un ciclo di immagini che diventano un vero e proprio atlante iconografico. dove i confini tra reale e rappresentato, tra scrittura e immagine, tra storia e narrazione perdono la ragione d’essere e spingono lo sguardo e la lettura verso una mappa che ci restituisce un passato distinto quanto il presente e ciò che vediamo sicuro quanto ciò che leggiamo. Come nella Miletreesima Notte dove i tappeti di tappeti ripresi dalle carte fotografiche compongono e scompongono al medesimo tempo l’immagine originaria di tutti i tappeti di tutti tempi e di tutti i luoghi.

È per questa ragione che riconoscerei all’interno dei suoi cicli di lavoro l’attitudine perseguita ed educata ad un viaggio verso il centro dell’immagine, una specie di Aleph dove tutte le immagini della storia si concentrano per rendersi invisibili. È in questa attutitine che, a mio avviso, Antonio Michelangelo Faggiano sfida la consunzione dell’immagine, dalla camera oscura alla camera chiara, e ce ne svela l’essenza che è prima di tutto nascondimento. Del resto l’uso così frequente della tarlatana, o di una garza che ricopre le immagini sino a filtrarle per un sguardo nel tempo, se da un lato richiama la tessitura della tela e dunque trascina con sè tutta la storia della pittura, da un altro riporta al nascondere e all’apparire dell’immagine, due facce di una stessa condizione della filosofia dell’immagine. Questo rievocare, infine, il velo della Veronica conferma la grande capacità del progetto di Faggiano di restituire all’immagine una nuova vita proprio nel dichiarane la morte. È in definitiva la sua condizione temporale, quella dell’immagine ad essere oggetto di configurazione, dove per tempo Faggiano intende tutti i tempi in un solo istante. Questa concentrazione o riunificazione delle immagini in un solo tempo risulta evidente in uno dei suoi ultimi lavori estremamente articolato dal punto di vista delle combinatorie visive: Dove finiscono i sogni di una razza estinta. Si tratta di un’opera che dichiara il tempo come luogo centrale della sua urgenza d’artista. Le dodici tele dedicate stanno alle dodici piramidi in termini di evocazione,

mentre i dodici mappamondi ruotano intorno all’immaginane di un tutto che si compresenta. Lo scheletro del dinosauro ripetuto e che quasi si trapianta su forme meccaniche ricolloca le immagini lungo un tempo azzerato, immobile e distante, dove le immagini svolgono il ruolo di comparse un film che riusciamo appena a vedere. Qui Antonio Michelangelo Faggiano raggiunge il luogo del dopo-immagine, un posto dove il visibile non è leggibile, dove la parola è muta e dove l’immagine, secondo una estetica forte, rifiuta di comunicare, ma con questo non-voler-dire si fa immagine superando i tempi dell’arte e agendo come una immagine totale del tempo e dello spazio, non evocato ma dichiarato.

Alcune sue opere degli anni 70

Alcune sue opere degli anni 90